sabato 8 maggio 2010

Le possibilità della critica contro il discorso dominante

DI MARIO ROSALDO
AGGIORNAMENTO: 3 NOVEMBRE 2017



In ultimo articolo parlavamo di quella ricostruzione retrospettiva che possiamo fare del nostro percorso critico, seguendo le tracce che abbiamo lasciato nel cammino della nostra ricerca. Inoltre parlavamo di questo lavoro come il mezzo che ci porta giusto fino al momento in cui ha luogo la nostra prima riflessione sulla realtà da qualche parte nell'infanzia; riflessione che non sorge mai fuori del pensiero dominante, fuori delle rappresentazione legale e morale dello stato e la religione, ma che gli oppone un punto di vista proprio, benché nel principio sia frammentario e fragile. Ebbene, questo apparente essere dentro e fuori allo stesso tempo nella «realtà» imposta dal discorso ufficiale, sembra succedere solo a quelli la cui attività, o azionare, permette loro di dirigere i sensi sulla forma dell'oggetto stesso, e non veramente sulle parole che lo definiscono o sostituiscono. Tuttavia non è così. Questa ambivalente posizione è condivisa anche dai bambini e dagli adolescenti che prestano molta più attenzione al discorso: alcuni imparano a simulare un immediato adattamento alla realtà discorsiva, proprio perché hanno scoperto nelle fasi iniziali che molte parole, se non tutte, sono solo astrazioni che non corrispondono in alcun modo alla natura e alla società presumibilmente riferite; altri imparano a ribellarsi, o a sfruttare la situazione; le tendenze scettiche, anarchiche ed opportuniste sorgono tra loro.

I due temi principali nell'infanzia e l'adolescenza sono la verità e la menzogna; o meglio detto, il grande tema è la scoperta del fatto che i bambini e gli adolescenti devono obbedire alle regole del gioco, anche quando sanno che pochi adulti le rispettano pienamente; questo ci lascia a molti o a tutti fronte al dilemma di cosa fare. Problema che ipoteticamente si può risolvere quando si raggiunge l'età adulta. Ma, a nostro avviso, più che imparare a sciogliere le ambivalenze, o a superare le contraddizioni, l'adulto impara a vivere momenti apparentemente durevole di decisione e conformità; impara a creare il suo proprio mondo all'interno del discorso dominante. Non crede nelle parole, ma la sua critica non va oltre il semplice rifiuto di ogni discorso metafisico e scientifico. Non oppone un punto di vista proprio, piuttosto prende del discorso imperante quello che è più conveniente per lui, o solo quello in ciò che crede. Cade così in un realismo che suppone l'esclusione degli opposti, che suppone lui rende l'esistenza più semplice. Quest'adulto preferisce l'estremismo all'indecisione, l'aggressione alla neutralità, o la partigianeria alla conciliazione; preferisce il fare al pensare, la pratica alla teoria. Sebbene le tendenze del discorso dominante, le quali considerano le contraddizioni, gli opposti, come una mera invenzione della retorica, come illusioni linguistiche che non esistono nella realtà, si rafforzano con questa preferenza unilateralista ―che si dice realista, oggettiva o empirica―, non riescono a sostituire o nascondere completamente le circostanze contraddittorie e mutevoli in cui noi tutti viviamo. Prova di questo è che non si può parlare di un adulto medio assolutamente pratico, perché questo stesso adulto può anche essere tutto l'opposto di ciò che abbiamo detto. Può preferire abbracciare le tendenze discorsive avverse al realismo e dedicarsi ad una vita idealista o di introspezione. Credere che l'una o l'altra è la tendenza media è solo un effetto del dominio ambivalente del discorso sociale.

Facciamo attenzione al fatto che, nonostante il suo carattere dominante e contraddittorio, questo discorso si oggettiva dalla nostra percezione della natura e della società. Vale a dire, il suo dominio non si basa esclusivamente sull'autonomia della conoscenza, o sull'oggettivazione stessa; le sue contraddizioni non sono anche la pura conseguenza di un processo interno. Possiamo attribuire questi variazioni nella percezione della realtà alla imperfezione dei nostri sensi, ma questa tesi non spiega da sola la partigianeria risultante che ci divide tra coloro che sostengono come dominante un punto di vista e quelli che lo confutano. Un lavoro intersoggettivo, come quel proposto da Husserl, che mira a superare le carenze umane nel campo della percezione, e che suppone essere un lavoro di convivenza, o di collaborazione, è possibile solo negli ambiti ristretti, in comunità idealmente isolate dalla realtà sociale e naturale che deve essere studiata. La selezione arbitraria di modelli e la sospensione metodologica delle relazioni tra gli oggetti di studio (la interoggettività) ed il tutto viene da una visione estremamente semplificata del concetto stesso di oggetto: nella teoria husserliana l'oggetto è assolutamente indipendente e può essere visto praticamente senza problemi da qualsiasi angolo, da qualsiasi spettatore; nella realtà questo non avviene, un oggetto non è mai isolato; lo isoliamo con il contrasto o l'aspetto, ma questo è un processo di astrazione che si svolge nella nostra mente e non nell'oggetto (la separazione fisica dell'oggetto di solito comporta la sua distruzione parziale o totale). Nonostante il suo tono conciliante, la teoria di Husserl è anche parte delle tendenze partigiane che oggi definiscono il discorso dominante.

Le contraddizioni del discorso dominante, quindi, non nascono dalla nostra volontà o la nostra coscienza, ma piuttosto dal processo sociale che dà origine a queste e al discorso in qualsiasi delle sue forme. È un fenomeno naturale e allo stesso tempo storico o umano. La sopravvivenza non diventa un problema in natura fino a quando gli individui si propongono di regolarizzare le condizioni favorevoli di vita, fino a quando gli individui imparano a fissare il tempo e lo spazio con qualcosa più che odori, sapori e ruggiti: marche, segni, suoni e oggetti sacri. Cioè, non è solo la sopravvivenza quella che porta i gruppi di individui a lottare tra di loro, ma anche il valore stesso che questi attribuiscono alle loro creazioni. Un punto di vista proprio, opposto al discorso dominante, è possibile grazie a che le attività o azioni, individuali e collettive, ci permettono di dedurre almeno una parte della realtà che il detto discorso nasconde e mistifica. Scoprire la realtà referente è anche scoprire che la percezione tradizionale è diventata una inversione dei fatti, una riflessione illusoria che soffoca ogni propria iniziativa. È vero che l'oggetto della critica è il discorso di coloro che si impegnano a spargere la cortina di fumo, ma una rigorosa critica non si riduce a definire, o ad inventare termini nuovi, e tanto meno a promuovere l'idea secondo la quale la liberazione inizia con la pura distruzione o la corruzione dello stesso discorso; anzi la sua priorità è quella di evidenziare il fatto che la realtà non si modifica lottando contro le apparenze o contro i miraggi, ma contro le sue determinanti sociali. Pertanto, l'importanza di avere un punto di vista proprio e critico non proviene dalla semplice opposizione al discorso dominante, né dalle semplici possibilità di studiare la realtà da una variazione nella percezione, ma piuttosto dal fatto che questo punto di vista è il prodotto della nostra attività fisica e mentale, non solo a causa di influenze esterne. La critica che cerca l'origine del pensiero proprio esclusivamente nel soggetto, o unicamente nel mezzo naturale o sociale, omette questa condizione la quale si applica a tutti gli individui.

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