sabato 31 ottobre 2009

Il discorso dominante e le briciole di pane lungo il cammino

DI MARIO ROSALDO
AGGIORNAMENTO: 3 NOVEMBRE 2017



Per molti è assurdo l’impegno di avere un atteggiamento critico verso la vita; a loro parere non c’è nulla di meglio che prendere le cose come vengono, giacché è inutile anche pensare che la realtà può essere cambiata. Tuttavia, ci sono anche persone che hanno un punto di vista completamente opposto. In altre parole, queste persone sono convinte che la realtà non esiste di per sé, ma piuttosto grazie alla partecipazione propositiva dell’individuo; è lui che la costruisce con la sua attività quotidiana, fisica e mentale. Posti davanti queste critiche, i primi sostengono che ogni persona è libera di pensare secondo la sua credenza, che la realtà comunque finisce sempre per imporsi e, per questa causa, non resta niente da fare salvo adattarsi a lei. In questo gruppo sono quelli che hanno sparso l’idea del pluralismo come una relazione equilibrata delle forze del pensiero: in questo tipo di dibattito pluralistico tutti hanno diritto di dire il suo avviso a condizione di non aspirare ad essere migliore rispetto ad altri, a condizione di non insistere per avere la ragione propria rispetto alla realtà, a condizione di non rompere l’ordine imposto dal liberalismo e dal socialismo riformista (presunte non-ideologie). In questa maniera, il pluralismo ufficiale distrugge le contraddizioni nel discorso ed apre illusoriamente un presente ed un futuro di tolleranza; ma in realtà tutto rimane lo stesso: questo tipo di pluralismo non è sufficiente visto che non riusce ad includere la critica radicale, la quale non si contenta con le soluzioni apparenti, la quale insiste sull’effettiva trasformazione della realtà stessa. Questi ultimi quindi denunciano quel pluralismo come una cortina di fumo che occulta la verità, vale a dire, che la società contemporanea si costruisce ancora sulle contraddizioni di classe e, pertanto, sulle contraddizioni del pensiero di sinistra e di destra: che il pluralismo non può essere fondato sull’esclusione dei radicali, nemmeno sotto il pretesto di tolerare solo il punto di vista razionale, empirico o scientifico, giacché questo approccio è discutibile in particolare tra coloro che si sono autonominati pluralistici.

venerdì 17 aprile 2009

L'insufficienza del discorso nell'arte

DI MARIO ROSALDO
AGGIORNAMENTO: 3 NOVEMBRE 2017



Quando Armando Plebe scrive, nel suo piccolo libro sull’espressionismo, che Hofmannsthal aveva già denunciato apertamente ai primi del secolo XX l'insufficienza del discorso con la frase «le parole mi si disfano nella bocca come funghi morbosi»*, non solo ci spiega che prima di questo movimento tedesco almeno un autore simbolista si aveva anticipato al grido ed alla liberazione dell'istinto, dell'inconscio, ma anche ci afferma che l'espressionismo aveva dato una forma particolare a quello che si sapeva già da molto tempo e non si discuteva ad alta voce. Plebe pone l’enfasi sul fatto che l’espressionismo non era un movimento artistico senza radici, senza storia. Comunque, il riferimento a Hofmannsthal, Freud, Husserl e, in generale, al contrasto tra i simbolisti, gli impressionisti e gli espressionisti, suggerisce un approccio classico di tipo determinista chi cerca di spiegare le azioni e le idee individuali soprattutto come prodotti di un fenomeno storico-sociale. Secondo questo approccio, la realtà non è altro che una infinita catena di cause ed effetti la cui origine è essa stessa. Per questa ragione si può dire che Hofmannsthal apparteneva alla sua epoca, che egli era soltanto il portavoce di una generazione ed anche della aristocrazia del suo tempo, ma non si può spiegare perché Hofmannsthal assumeva tale ruolo e non qualsiasi altro autore. Fortunatamente, il detto approccio non ha bisogno di questa spiegazione, li basta sapere che Hofmannsthal difendeva una concezione aristocratica e decadente contro il trionfalismo della borghesia. In questo modo, Plebe insinua sempre una serie di relazioni senza mai fissare un punto di partenza. La realtà si rappresenta come un numero infinito de cerchi concentrici i quali si allontanano indefettibilmente dal storico e dal critico d'arte.

venerdì 23 gennaio 2009

Sull’oggettività e la soggettività nella critica*

DI MARIO ROSALDO
AGGIORNAMENTO: 3 NOVEMBRE 2017




Spesso diamo per scontato che, prima di iniziare uno studio serio dell'architettura, deve essere data una definizione chiara e completa del suo concetto. Karl Popper ha affermato che questo lavoro è piuttosto metafisico che scientifico. Tuttavia, le definizioni sono utili in ogni campo della scienza e dell’arte, e questo è qualcosa che nessuno può negare. La chiave è di non dimenticare che i concetti fanno parte delle teorie, che un concetto sempre appartiene ad un quadro teorico. In altre parole, quando si sceglie un concetto di architettura istituito da uno degli architetti famosi, si sceglie anche la filosofia o l'ipotesi su cui si fonda. Il caso non è diverso quando crediamo che la definizione concepita è unicamente nostra; tendiamo a dimenticare che viviamo in una società che continuamente ci educa con concetti religiosi, filosofici o scientifici; anche le semplici relazioni amichevoli favoriscono lo scambio di idee. Naturalmente, è esatto di dire che abbiamo idee o concetti nostri, poiché il nostro contributo alla società è variare il punto di vista da cui gli oggetti possono essere percepiti. Il problema sorge quando si tenta di istituire i propri concetti come la migliore percezione della realtà.